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È un (mondo del) lavoro per donne?

Da cosa derivano le differenze di genere presenti nel mondo del lavoro? Se il tema della discriminazione di genere ha che fare con il welfare, la cultura, i processi organizzativi, una questione di fondo resta il persistere di pregiudizi di genere, anche in chi ha ruoli di responsabilità e potrebbe, volendo, contribuire a cambiare le cose.

Nei contesti di lavoro la questione femminile resta un tema attuale, nonostante i progressivi cambiamenti osservati in Italia e all’estero. Basti ricordare il persistere di un gap occupazionale e salariale elevato tra donne e uomini, cui si associa una presenza estremamente limitata delle donne nelle posizioni di vertice.
I dati Istat (2018) riportano un 49,5% di occupazione femminile a fronte del 67,6% di quella maschile; il gap salariale, inoltre, è passato dal 4 all’8% dal 2008 al 2012. In estrema sintesi, le donne lavorano in percentuale minore degli uomini e sono pagate meno.
Questi dati rimandano a due tipi di “segregazione”: orizzontale, cioè una maggiore presenza delle donne in settori occupazionali caratterizzati da una centralità della cura, del lavoro “con l’altro” e, spesso, da salari inferiori; a questa si associa una discriminazione di tipo verticale, vale a dire il limitato accesso delle donne alle posizioni apicali.

A cosa è dovuta questa situazione? Le cause sono molte e complesse.
La segregazione orizzontale inizia ben prima dell’ingresso nel mondo del lavoro: già i primi processi di socializzazione espongono le bambine prima e le ragazze dopo a modelli di genere definiti; sono inoltre rinforzate in loro le preferenze per alcune attività (“da femmina”). I libri di testo scolastici sono intrisi di stereotipi di genere che entrano in risonanza con modelli proposti dal contesto di riferimento e dai media, fornendo così una cornice in cui è codificato culturalmente ciò che è “più femminile” e ciò che è “più maschile”.

All’ingresso nel mondo del lavoro, altre sono le dinamiche che contribuiscono ai processi di discriminazione di genere. Un recente studio che ho condotto con Eurosearch, in partnership con Intesa San Paolo e realizzato attraverso interviste approfondite a 90 top e middle manager (donne e uomini), ha messo in luce, dalla prospettiva di “chi ce l’ha fatta”, quanto sia difficile per le donne accedere ai vertici delle organizzazioni. Dalle interviste emergono, in modo implicito o esplicito, diversi pregiudizi di genere: la conciliazione è un compito femminile, le donne “si saziano prima”, la maternità sposta l’attenzione delle donne, le donne non sono ugualmente performanti. Spesso il mancato accesso alle posizioni apicali è attribuito a una sorta di “autolimitazione delle donne al lavoro”, ricondotta a cause naturali, innate, connaturate.
Colpisce, nelle risposte dei giovani manager, donne e uomini con carriere internazionali, il frequente ricorso a una interpretazione quasi “biologica” delle differenze di genere al lavoro. Per contro è emerso come le culture organizzative e le pratiche di lavoro siano ancora pensate prevalentemente per uomini che non hanno compiti di conciliazione: le soluzioni formali pro-conciliazione non sono quindi sufficienti per rompere il soffitto di cristallo.
Affinché in Italia sia raggiunta l’equità al lavoro occorre che si attivi un processo di cambiamento sistemico (welfare, cultura, ecc.), mentre alle organizzazioni spetta il compito di sostenere le carriere femminili tramite azioni dirette (percorsi di coaching e di mentoring) e indirette (strumenti di conciliazione) ma anche attraverso progetti di cambiamento culturale che prendano avvio dalla consapevolezza e dal contrasto dei pregiudizi di genere: in questo, una formazione specifica rivolta a donne e uomini, a partire dai vertici organizzativi, potrebbe fornire un contributo importante. 

Questa storia di ricerca si trova in:


un racconto di
Chiara Ghislieri
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

Pubblicato il

27 marzo 2020

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